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domenica 26 settembre 2010


Vision CINEMA
Saartije Baartman, la violenza e lo sguardo
di Mariangla Imbrenda


Venerdì 24 Settembre 2010 12:59

Arriverà in ottobre sugli schermi europei “Venus Noire” il film di Abdellatif Kechiche sulla storia di Saartije Baartman, la “venere ottentotta” nella Parigi inizio Ottocento. Pellicola presentata all'ultima Mostra di Venezia, e aspramente contestata dalla stampa con accuse di voyeurismo e pornografia per il suo stare addosso al corpo esposto della donna.
Meno si è notato, o voluto notare, il vero fil rouge: l'impenetrabilità dello sguardo della ragazza, paradigma dello sfruttamento razziale e culturale senza età, che la camera restituisce al pubblico, ben consapevole a questo punto di rischiare l'immedesimazione con gli spettatori londinesi o parigini di quell'inizio Ottocento...
E' solo nel 2002 che l'Assemblée Nationale francese ha votato la restituzione al Sudafrica degli organi genitali e del cervello di Saartije Baartman, per 150 anni esposti in barattolo al museo, ed invano richiesti dopo la fine dell’apartheid dai capi del popolo khoikhoi e da Nelson Mandela...



"Questi ragionamenti sono spaventosi, padre” dissi a Clément ” portano a gusti crudeli, a gusti orribili”.
“E cosa importa?" replicò il barbaro. “Te lo ripeto ancora una volta, siamo padroni dei nostri gusti? Forse non dovremmo cedere al comando dei gusti che abbiamo ricevuto dalla natura, così come il capo orgoglioso della quercia si piega sotto l'uragano che la investe? Se la natura fosse offesa da questi gusti, non ce li ispirerebbe ; è impossibile che essa ispiri in noi un sentimento fatto per oltraggiarla, e forti di questa certezza, possiamo abbandonarci alle nostre passioni, di qualsiasi genere, di qualsiasi violenza esse siano, con la sicurezza che i danni che ne derivano sono solo disegni della natura di cui noi siamo gli organi involontari. Cosa ci importano le conseguenze di queste passioni? Quando si vuol trarre diletto da un'azione qualsiasi, le conseguenze non c'entrano affatto”.da Justine, Donatien-Alphonse-François de Sade


Nello stesso anno, il 1814, in cui Donatien-Alphonse-François de Sade si spegne malato di congestione polmonare nel manicomio di Charenton, Saartije Baartman arriva a Parigi, e prende alloggio nei pressi del Palais Royal. Nel quartiere, all'epoca luogo di assoluta perdizione, diventerà una vedette. La chiamano con disprezzo “Venere Ottentotta”, qui sperimenterà amaramente la filosofia del boudoir del Divino Marchese.
Quattro anni prima Saartije è arrivata in Europa, per l'esattezza a Londra, dove ha vissuto esibendosi in spettacoli popolari. A lasciare la sua terra d'origine, il Sudafrica, e a tentare una vita migliore in Occidente, l'ha convinta Hendrick Caezar, un europeo per cui ha lavorato come serva, a Città del Capo.
In lei, originaria del popolo khoikhoi, l'uomo ha intravisto un certo non so che di esotico ed una potenziale fonte di lauti guadagni: il corpo enorme della donna, vestito a teatro di un tessuto aderente color carne, diventa infatti subito un'attrazione molto remunerativa.
Due segni tribali posticci sulle gote, qualche collana in metallo che risuona, bracciali massicci ai polsi ed una corona intorno al capo dai capelli cortissimi: sono queste le chincaglierie che Saartije deve indossare per interpretare il ruolo di “ottentotta addomesticata”. Al suo collo è attaccata una catena che il padrone tiene in mano, deve obbedire ai suoi ordini se vuole sperare in qualche minuto di libertà. Lui la obbliga a cantare nenie “selvagge” del suo paese, ad eseguire danze tribali, a gridare, a ruggire come una bestia feroce, a scuotere le natiche e a farsele toccare, palpeggiare: mani libidinose o semplicemente curiose vengono a verificare che la sua è carne vera, e non cuscini. La fronte contratta, le labbra serrate, Saartije sta accucciata in una gabbia di legno al centro del palco, ne esce per esibirsi e ad essa dopo fa inesorabilmente ritorno, gli occhi spenti, immobili nel vuoto.
Questo sguardo che nessuna fonte storica può descrivere o ricostruire è lo specchio muto della società dell'epoca capace di legittimare ogni abuso con la retorica del linguaggio.






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